di Giorgio Cricco -
Amedeo Modigliani, livornese di nascita e apolide per disperata vocazione, approda a Parigi nel 1906, con la testa piena di sogni confusi e il cuore vorace di emo- zioni. In tasca ha solo pochi spiccioli e una incerta lettera di presentazione per il russo Samuel Granowsky, noto a Montparnasse piùper le sue pubbliche stravaganze nel vestire che per il talento artistico di pittore.
Ad appena 22 anni Modigliani ha giàbruciato le tappe di una formazione eclettica ma disordinata, trascinata fra gli stanchi anni di un ginnasio di poca soddisfazione, l’esaltazione giovanile per una filosofia nietzschiana e un decadentismo letterario poco più che orecchiati, l’insofferenza di un mal sopportato alunnato pittorico provinciale e retoricamente postmacchiaiolo.
Alla precoce vocazione artistica aveva condisceso inizialmente sua madre, Eugenie Garsin, donna colta e sensibile, appartenente a un’agiata ma poi decaduta famiglia marsigliese della piccola borghesia sefardita. E vi aveva condisceso piùper affetto materno che per reale convinzione, poiché il piccolo Amedeo, che lei chiamava teneramente Dedo, dimostrò subito una cagionevole salute polmonare, che a più riprese lo costrinse a lunghi periodi di letto e di isolamento, nei quali passava il tempo a scarabocchiare fantasiosamente su certi quaderni che lei stessa gli procurava.
L’Italia che Modigliani abbandona nel 1906 è quella ferocemente contraddittoria del terzo governo Giolitti, tesa fra l’avvenirismo positivista dell’Esposizione Internazionale di Milano e l’endemica piaga dell’emigrazione verso le Americhe, di cui il terribile naufragio del Sirio fu, proprio in quell’anno, uno degli emblemi più dolorosi e sinistri.
Così, mentre Giosuè Carducci riceve il prestigioso Premio Nobel per la letteratura e RenéPottier trionfa al quarto Tour de France, Modigliani inizia la sua esperienza randagia e sublime nel cuore pulsante e spesso torbido della ville lumière, tra i quartieri simbolo di Montmartre e Montparnasse.
Delle sue frequentazioni artistiche e letterarie delle avanguardie, dei suoi amori sfrenati, delle sue dolorose sregolatezze, cosìcome della sua solitudine e della sua depressione tanto (forse troppo) si è detto e scritto, nel tentativo – spesso protervo - di cogliere una chiave unitaria di comprensione del suo fare pittura e scultura. Ma non di questo si parla qui, per fortuna.
La galleria di immagini che segue, infatti, racconta tutta un’altra storia. Una storia assai coerente, anche tecnicamente, sia nel nitore impeccabile di un bianco e nero d’altri tempi, che sembra alludere al pionierismo felice di Felix Nadar, sia nella sobrietà opaca di un colore quasi pittorico, senza mai enfatizzazioni post-scatto alla moda. E, come per voluto contrappasso, si tratta di immagini sistematicamente e quasi cocciutamente d’ambiente: architettoniche, urbane, sempre prive, anche solo di sfuggita, di qualsiasi presenza umana. Senza un alito di vita che non sia quella, metafisica, indotta dal riflesso delle pietre dei muri, dei lastricati delle vie, delle modanature - ora guizzanti, ora sbocconcellate - delle ineguali facciate.
Essendo a tutti nota la vera e propria idiosincrasia che Modigliani aveva maturato, fin dai tempi delle sue prime frequentazioni degli atelier labronici, per la pittura di paesaggio e d’ambiente in genere, questa scelta così tenacemente perseguita non puòche colpire e intrigare per l’intrinseca e forse maliziosa coerenza. Dove lui ha indagato la figura umana e il volto femminile in specie, declinandone sguardi e lineamenti ora con affanno amoroso, ora con solenne e quasi classica ponderazione, le immagini fotografiche delle sue citta, Livorno e Parigi, lo inseguono inchiodandolo simbolicamente ai luoghi in cui quei ritratti hanno preso vita e spessore comunicativo, in quanto per lavorare, come lui stesso affermava, «ho bisogno d’un essere vivente, di vederlo davanti a me. L’astrazione uccide, è una dimensione senza uscita. E' l’essere umano che mi interessa.»
Così l’occhio contemporaneo ma affettuoso di Luca Dal Canto restituisce con rigore documentario non solo il diario (nel senso di scansione cronologica) di un percorso artistico, quanto il mutamento (e un occhio romantico potrebbe intenderne anche la degenerazione) del panorama urbano di un secolo. Ecco allora che del grande e luminoso atelier livornese di Guglielmo Micheli, primo maestro di pittura di Modigliani, posto al piano terreno della prestigiosa Villa Baciocchi, non resta oggi che un’anonima e malconcia porticina verde, incassata in un muro di cinta stonacato.
Allo stesso modo, le povere case parigine che conobbero il disordinato girovagare, fra insuccessi professionali, furori creativi, alcool e amori laceranti, di colui che Apollinaire definiva ironicamente flaneur des deux Rives, ci appaiono oggi normalizzati edifici residenziali dimentichi di quei focosi trascorsi.
E' una lettura che si articola costantemente su doppia traccia, quella proposta da I luoghi di Modigliani tra Livorno e Parigi.
I luoghi del maestro maledetto sono la filigrana sottile ma tenacissima sulla quale si sono intessute tutte le sue turbolente vicissitudini artistiche e sentimentali e al tempo stesso lo specchio fedele del cambiamento di un’epoca.
Prestigiosi edifici ora scomparsi, atelier ridotti a magazzini, catapecchie divenute residenze alla moda, ville e palazzi bombardati o scomparsi, caffèe teatri chiusi o decaduti, nel tritacarne di un’urbanistica che tutto muta, consuma e risemantizza. Ulteriore riconferma dello spessore ideologico della scelta di Modigliani di dedicarsi così forsennatamente al solo ritratto («Il volto è la creazione suprema della natura. Me ne serviròsempre»), piuttosto che al paesaggio, potendo essere veramente immortale il primo e mestamente aleatorio il secondo.
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